La sua ultima ouverture d’opera Giuseppe Verdi la scrive nel 1862 per La forza del destino, come vedremo in questa decima puntata. E quella dei Meistersinger (1868) è l’ultima ouverture di Wagner. I successori preferiscono il preludio; oppure niente, come Puccini (con la bella eccezione del breve preludio di Fanciulla del West). Preludio anche per i francesi: dopo Bizet, arrivano Massenet e il Pelléas et Mélisande di Debussy. L’ouverture, nel Novecento, o è citazione del passato, oppure sopravvive, ancora una volta, nei generi esterni all’opera propriamente detta: il musical americano rinnova i fasti del pot-pourri da operetta.
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55:34
Nona puntata
In questa nona puntata scopriremo che il preludio come alternativa all’ouverture non è un’innovazione dei francesi, e neppure dei tedeschi. Già Bellini e Donizetti hanno sperimentato questa possibilità, e quando Wagner compone il preludio del Lohengrin Verdi vi ha già fatto ricorso più volte (tra i più belli: Attila, I masnadieri, Macbeth). Verdi, con La Traviata, Un ballo in maschera, Aida; e Wagner, con Tristan und Isolde e Parsifal, attraversano nuove frontiere.
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51:54
Ottava puntata
In questa ottava puntata ci spostiamo in Francia, dove il Romanticismo passa dall’Impero alla Restaurazione, trascolorando dalle sonorità post-rivoluzionarie di Méhul alla febbre rossiniana degli Opèra comique di Grétry. Con la monarchia costituzionale di Luigi Filippo e l’affermarsi del Grand Opéra, l’ouverture entra in crisi. Si rifugia, ancora una volta, nei generi “minori” e diviene il riassunto accattivante dei temi più pregnanti dello spettacolo: diviene l’ouverture “pot-pourri”, spesso (come nel caso di Offenbach) realizzata non dai compositori, ma dai direttori d’orchestra che ne realizzano gli spettacoli. Intanto comincia ad affascinare l’idea di sostituire l’ouverture con un breve preludio significativo: Georges Bizet, Carmen, 1875.
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53:31
Settima puntata
Il romanticismo tedesco, come vedremo in questa settima puntata, propone opere assai diverse da quelle che, negli stessi anni, si producono in Italia. Partendo dal genere del Singspiel (oramai, dopo Mozart e Beethoven, non più “minore”), oltralpe si va forgiando una drammaturgia musicale che accoglie boschi, demoni, magie, dannazione e redenzione. A dare a questo teatro musicale le sue ouverture ideali è, con i suoi capolavori, Carl Maria von Weber. La sua perfetta sintesi tra forma sinfonica e adesione emotiva al tema del dramma è un punto di riferimento non solo per i tedeschi: ne risente non poco anche il Verdi di Luisa Miller.
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54:02
Sesta puntata
Protagonista di questa sesta puntata è l’opera italiana del primo Ottocento, dominata dall’inventiva inesauribile e dalla perfezione formale delle sinfonie rossiniane. I suoi successori, e in particolare Bellini e Donizetti, dovranno tutti fare i conti con quel modello: ma la nuova temperie romantica li conduce alla fine su altre strade.
“Per quanto diversi tra loro sieno i drammi che voi prendete a mettere sotto le note, tutte le sinfonie che a quelli servono d’apertura sono sempre battute al conio medesimo: non falla mai ch’esse non sieno un solennissimo strombettio, composto d’un allegro, d’un largo e d’un balletto. Pure, se i nostri compositori avessero consultate le leggi del buon gusto, appreso avrebbero in quel codice prezioso che la sinfonia aver dee connessione col dramma, e segnatamente colla prima scena”.
Queste parole si leggono nel trattato Dell’opera in musica, scritto dal cavalier Antonio Planelli dell’ordine gerosolimitano e pubblicato a Napoli nel 1772.
Quella di introdurre uno spettacolo teatrale (non solo operistico) con della musica strumentale è un’usanza antica: la Toccata che il 24 febbraio 1607 precedette, a Mantova, la rappresentazione dell’Orfeo di Claudio Monteverdi è il primo “solennissimo strombettio” della storia dell’opera di cui si abbia notizia certa. Da quel momento, preparare il pubblico dell’opera con un brano strumentale diviene un’abitudine di cui non si sa fare a meno: per il solo fatto di ascoltare della bella musica, che li invita alla concentrazione e li esorta all’oblio del mondo quotidiano, gli spettatori si predispongono così ad assistere all’incanto che si paleserà loro all’alzarsi del sipario. La Francia di Luigi XIV e Jean-Baptiste Lully farà delle proprie “ouverture” un vessillo, e un modello in grado di conquistare il mondo. Napoli, divenuta il centro d’irradiazione di tutta l’opera italiana, risponderà con un proprio modello, altrettanto forte.
Con il Settecento, e in particolare con il pensiero illuminista, si manifesta un nuovo sentire. Non basta più che l’ouverture (o, in Italia, ‘sinfonia avanti l’opera’) apra lo spazio di una generica irrealtà: si vuole che essa susciti negli spettatori un sentimento coerente con le caratteristiche dello spettacolo che si va a rappresentare; si vuole, insomma, che dello spettacolo essa sia parte integrante, che ne condivida i tratti emotivi. Con il secolo successivo, e con l’affermarsi della temperie romantica, questa prospettiva si rafforza, anche se non mancano le eccezioni: prima fra tutte, quella costituita da Gioacchino Rossini, che solo raramente si piegherà all’idea di un’ouverture “programmatica”. Raggiunto infine il culmine nel secondo Ottocento, con le vette assolute della Forza del destino di Verdi e dei wagneriani Maestri cantori, l’ouverture d’opera esplode e si annienta, lasciando spazio a soluzioni alternative, che già esistevano, ma che ora sono pressoché esclusive: il preludio, gli intermezzi, la breve introduzione. Quando, nel Novecento, l’ouverture si riaffaccia, è ormai il vagheggiamento d’un mondo che non c’è più.
a cura di Marco Mangani,