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Tutto quello che è successo dopo alcuni dei più noti casi di cronaca nera italiana. Una storia ogni mese, il primo del mese. Un podcast del Post, scritto e racc...
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5 risultati 73
  • Chiavari, 6 maggio 1996 – Prima parte
    Dal 12 novembre tornano le “Dieci lezioni sul giornalismo”: un ciclo di incontri online a cui il Post lavora da alcuni anni per condividere e raccontare le cose che ha imparato sui giornali e sull’informazione, e per capire meglio le cose che ci succedono intorno: puoi iscriverti qui fino all'11 novembre. Ci sarà anche Stefano Nazzi, per raccontare come si scrive di indagini e processi e come si tratta di cronaca giudiziaria nel giornalismo italiano. Il 6 maggio 1996 a Chiavari, in provincia di Genova, fu assassinata una ragazza, Nada Cella. Aveva 24 anni. Fu uccisa nello studio di commercialista dove lavorava da cinque anni. Ai soccorritori fu comunicato che si era trattato di un incidente, il luogo dove era avvenuto il delitto non fu preservato, la scena del crimine fu irrimediabilmente contaminata, addirittura furono pulite con straccio e spazzolone le macchie di sangue trovate sul pianerottolo e sulle scale. L’arma del delitto non è mai stata trovata. L’omicidio di Nada Cella presentava molte caratteristiche in comune con quello di Simonetta Cesaroni, avvenuto in via Poma, a Roma, sei anni prima. Le indagini a Chiavari si concentrarono sul datore di lavoro della ragazza, il commercialista Marco Soracco, ma l’inchiesta non portò a nulla. Altre piste, e soprattutto una, furono sottovalutate o non considerate. L’omicidio di Nada Cella divenne così un cold case, un caso freddo, irrisolto. Solo nel 2021 l’inchiesta è stata ufficialmente riaperta. È stato chiesto il rinvio a giudizio di una donna, già indagata nel 1996, ma la richiesta è stata respinta dalla giudice per le indagini preliminari. Contro quella decisione la pubblico ministero che ha condotto la nuova indagine ha presentato appello. Il caso dell’omicidio di Nada Cella è ancora, ufficialmente, aperto. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
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    45:19
  • Chiavari, 6 maggio 1996 – Seconda parte
    Dal 12 novembre tornano le “Dieci lezioni sul giornalismo”: un ciclo di incontri online a cui il Post lavora da alcuni anni per condividere e raccontare le cose che ha imparato sui giornali e sull’informazione, e per capire meglio le cose che ci succedono intorno: puoi iscriverti qui fino all'11 novembre. Ci sarà anche Stefano Nazzi, per raccontare come si scrive di indagini e processi e come si tratta di cronaca giudiziaria nel giornalismo italiano. Il 6 maggio 1996 a Chiavari, in provincia di Genova, fu assassinata una ragazza, Nada Cella. Aveva 24 anni. Fu uccisa nello studio di commercialista dove lavorava da cinque anni. Ai soccorritori fu comunicato che si era trattato di un incidente, il luogo dove era avvenuto il delitto non fu preservato, la scena del crimine fu irrimediabilmente contaminata, addirittura furono pulite con straccio e spazzolone le macchie di sangue trovate sul pianerottolo e sulle scale. L’arma del delitto non è mai stata trovata. L’omicidio di Nada Cella presentava molte caratteristiche in comune con quello di Simonetta Cesaroni, avvenuto in via Poma, a Roma, sei anni prima. Le indagini a Chiavari si concentrarono sul datore di lavoro della ragazza, il commercialista Marco Soracco, ma l’inchiesta non portò a nulla. Altre piste, e soprattutto una, furono sottovalutate o non considerate. L’omicidio di Nada Cella divenne così un cold case, un caso freddo, irrisolto. Solo nel 2021 l’inchiesta è stata ufficialmente riaperta. È stato chiesto il rinvio a giudizio di una donna, già indagata nel 1996, ma la richiesta è stata respinta dalla giudice per le indagini preliminari. Contro quella decisione la pubblico ministero che ha condotto la nuova indagine ha presentato appello. Il caso dell’omicidio di Nada Cella è ancora, ufficialmente, aperto. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
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    1:11:44
  • Giarre, 17 ottobre 1980
    Ogni due mesi c’è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Il 17 ottobre 1980 due ragazzi scomparvero a Giarre, in provincia di Catania: in città li chiamavano “gli ziti”, i fidanzati. Erano Giorgio Agatino Giammona, di 25 anni, e Antonio Galatola, di 15. I loro corpi vennero ritrovati il 31 ottobre in una zona, la Vigna del Principe, che era stata perlustrata nei giorni precedenti senza risultati. I giornali parlarono inizialmente di un doppio suicidio con il veleno. Dall’autopsia emerse che invece erano entrambi morti per colpi di pistola alla testa. Si parlò allora di omicidio-suicidio: il più grande, Giorgio Agatino Giammona, che in città era definito "puppu cu bullu", e cioè omosessuale patentato, aveva, secondo le cronache, ucciso Antonio Galatola per poi spararsi. La pistola venne però ritrovata distante dai corpi, parzialmente interrata. Dovette essere esclusa quindi anche l’ipotesi dell’omicidio-suicidio. Il giorno dei funerali, separati per volere delle famiglie, ci fu una confessione: Ciccio Messina, tredicenne, nipote di Galatola, disse di aver sparato ai due ragazzi e che erano stati loro stessi a chiedergli di farlo. Poi Messina ritrattò, disse che era stato obbligato a confessare ma le indagini vennero comunque dichiarate chiuse. Anche se lo stesso magistrato a cui per primo era stato assegnato il caso aveva molti dubbi sulla sua ricostruzione. Ciccio Messina aveva meno di 14 anni e quindi non era imputabile. Quel delitto provocò una forte reazione del movimento per i diritti delle coppie omosessuali e proprio dopo i fatti di Giarre nacque, in Sicilia, l’Arcigay che divenne più tardi movimento nazionale. In città, invece, di Giorgio Agatino Giammona e di Antonio Galatola non si parlò più. Solo recentemente è emersa fortemente una nuova ipotesi. Quello dei due ragazzi sarebbe stato un delitto omofobo ma anche d’onore. Qualcuno, all’interno delle due famiglie, non sopportava che Giorgio e Antonio si comportassero come una coppia, addirittura andando in giro mano nella mano, gettando così disonore sulle famiglie stesse. E Ciccio Messina sarebbe stato solo il capro espiatorio da sacrificare, perché non processabile. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
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    9:57
  • Foligno, 1992-1993 - Prima parte
    Tra il 1992 e il 1993 due delitti crearono in Italia forte emozione e paura. Avvennero in Umbria, nella zona di Foligno. Il 4 ottobre 1992 venne assassinato un bambino di quattro anni, Simone Allegretti; il 7 agosto 1993 un tredicenne, Lorenzo Paolucci. Dopo il primo delitto l’assassino inviò lettere alla polizia, sfidandola e annunciando che avrebbe ucciso ancora. Si firmava autodefinendosi “il mostro”. Le indagini furono difficili, non c’erano tracce, né prove, nessuno aveva visto nulla. Dopo il primo omicidio un ragazzo della provincia di Milano si autoaccusò: diede indicazioni realistiche su ciò che aveva fatto. Per 15 giorni le indagini si fermarono fino a che si capì che quel ragazzo si era inventato tutto. L’aveva fatto, disse, per attirare l’attenzione della ex fidanzata. Il vero assassino fu preso dopo il secondo delitto. Lasciò questa volta numerose tracce che portarono fino a lui. Si chiamava Luigi Chiatti, quando lo fermarono disse: «Io sono un bravo boy scout». Confessò quasi subito ma soprattutto, durante gli interrogatori, mise sé stesso al centro di tutto, parlando della sua vita (aveva trascorso i primi sette anni in un istituto per l’infanzia ed era stato adottato poi da una famiglia di Foligno), e dei suoi problemi, quasi giustificando e banalizzando ciò che aveva fatto. Aveva un piano, rapire dei bambini e vivere con loro per sette anni. Senza mai scendere nei particolari dei due delitti, la storia degli omicidi di Foligno racconta di come segnali evidenti presenti nei comportamenti di Luigi Chiatti vennero ignorati, di come si svolsero le perizie psichiatriche e di come, al centro dei processi, ci furono proprio quelle perizie, molto contrastanti, sulla sua capacità di intendere e di volere. Luigi Chiatti ha finito di scontare la sua pena nel 2015 ma da allora è stato trasferito in una rems, una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. I giudici non gli hanno mai concesso di tornare libero: viene ancora oggi giudicato “socialmente pericoloso”. Ogni due mesi c’è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
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    44:06
  • Foligno, 1992-1993 - Seconda parte
    Tra il 1992 e il 1993 due delitti crearono in Italia forte emozione e paura. Avvennero in Umbria, nella zona di Foligno. Il 4 ottobre 1992 venne assassinato un bambino di quattro anni, Simone Allegretti; il 7 agosto 1993 un tredicenne, Lorenzo Paolucci. Dopo il primo delitto l’assassino inviò lettere alla polizia, sfidandola e annunciando che avrebbe ucciso ancora. Si firmava autodefinendosi “il mostro”. Le indagini furono difficili, non c’erano tracce, né prove, nessuno aveva visto nulla. Dopo il primo omicidio un ragazzo della provincia di Milano si autoaccusò: diede indicazioni realistiche su ciò che aveva fatto. Per 15 giorni le indagini si fermarono fino a che si capì che quel ragazzo si era inventato tutto. L’aveva fatto, disse, per attirare l’attenzione della ex fidanzata. Il vero assassino fu preso dopo il secondo delitto. Lasciò questa volta numerose tracce che portarono fino a lui. Si chiamava Luigi Chiatti, quando lo fermarono disse: «Io sono un bravo boy scout». Confessò quasi subito ma soprattutto, durante gli interrogatori, mise sé stesso al centro di tutto, parlando della sua vita (aveva trascorso i primi sette anni in un istituto per l’infanzia ed era stato adottato poi da una famiglia di Foligno), e dei suoi problemi, quasi giustificando e banalizzando ciò che aveva fatto. Aveva un piano, rapire dei bambini e vivere con loro per sette anni. Senza mai scendere nei particolari dei due delitti, la storia degli omicidi di Foligno racconta di come segnali evidenti presenti nei comportamenti di Luigi Chiatti vennero ignorati, di come si svolsero le perizie psichiatriche e di come, al centro dei processi, ci furono proprio quelle perizie, molto contrastanti, sulla sua capacità di intendere e di volere. Luigi Chiatti ha finito di scontare la sua pena nel 2015 ma da allora è stato trasferito in una rems, una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. I giudici non gli hanno mai concesso di tornare libero: viene ancora oggi giudicato “socialmente pericoloso”. Ogni due mesi c’è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
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    52:36

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